mercoledì, febbraio 15

L'umano filosofico

Il caffè entrò nel solito umano, ordinò il solito uomo nero corto mulatto bianco. Diede uno sguardo intorno prima di decidere sul dove. C'erano altri caffè intorno, e un gruppo di cappuccini sul tavolo alla destra. Dove la schiuma non raggiungeva l'angolo. I cappuccini sembravano tramare le solite trame, come sempre. Trama e trama e trama. Ma di che tramassero poi, solo loro sapevano. Il caffè decise per l'angolo dove la schiuma montava forte. Non ne era un amante, ma certi giorni doveva ammettere che il tanto giusto era piacevole, ma solo sul bordo caldo. Il caffè stava lì, a riflettere sui suoi stessi pensieri, era sempre attivo, non dormiva mai, era caldo e poi freddo e poi caldo, e si domandava da dove venisse e dove andasse. E finiva sempre nel solito umano col solito uomo a fianco ai soliti cappuccini. Nulla di nuovo, solitamente. La noia lo prendeva. Lo afferrava. Non ragionava poi sui massimi sistemi, era solo e totalmente preso dalla sua scurezza. Ma perché poi son nato scuro, e corto. Non potevo nascere lungo. E così corto, dove poi posso andare, a nessuno piaccio. Però sono corto, no? E continuava a invidiare i lunghi cugini, pieni di acqua e sempre più caldi e sempre più a lungo. I cugini lunghi ed europei. Disprezzati in patria, certo. Ma si sentiva in prigione, era apprezzato si, ma solamente in una piccola parte di mondo, e ovunque no, non lo capivano mica. La schiuma fine, l'amarezza, la malinconia, e quel gusto eccessivo da compensare. I cugini erano più semplici, meno profondi e meno soddisfacenti, ma a tutti piacevano. A tutti piacciono le cose facili. E i cugini erano facili. La complessità va pagata, ed è più rischiosa, è più paurosa, e forse soddisfa allo stesso modo. Questo è il peso che si porta addosso. E pesa e pesa. Che anche se più difficile la soddisfazione è la stessa del facile. E non per tutti, se uno si abitua, per gli altri puro tormento . Il caffè guardo torvo dalla narice. Pioveva, d'inverno a volte pioveva. D'estate era raro. Ma d'inverno succedeva. Per il resto era un continuo via vai di muco sulle pareti. 

giovedì, dicembre 26

(Vecchia) lettera d'amore mai data

Vorrei parlare e non posso, ho molto da dire, niente che riuscirò a dirti, o non come vorrei
come ho immaginato, mancherà l'atmosfera, mi mancherà la freddezza e a te non mancherà,
non potrai capire quello che direi e se potrai non vorrai capirlo, e i miei pensieri resteranno in me,
senza vibrare nell'aria, senza poter perdersi nel vento, e non dovrò vedere nei tuoi occhi quello che già so,
quello che non sai, a cui non voglio rassegnarmi, a cui non puoi non farlo.

E ho parlato di tutto quello che vorrei dire senza dirlo, come decido tutto quello che vorrei fare senza farlo,
perché non mi espongo, vivo nel sogno (...scrittura incomprensibile...)
convinto che sperare mi salvi dall'apatia, anche se mi salva lasciandomi la mano,
e io cado, pieno di tristezza, almeno pieno di qualcosa.

mercoledì, dicembre 11

Ehi, sorriso

Aveva il sorriso facile. La chiamavano così, ehi sorriso. Si girava sempre. A volte ci provava a non girarsi, uno, due, tre..si voltava. Un bacio, un altro. Ehi sorriso. Era spesso silenziosa. A volte non apriva bocca per settimane. Settimane ferma, immobile, la bocca iniziava a farsi domande, si chiedeva se mai si fosse mossa. Poi qualcuno, ehi sorriso, e si ricordava. Quando era vicina ai sacchi, annusava quel che c’era. Trovava le sue ragioni in quegli scarti. Provava a ricostruire vite e mani. Le mani che avevano toccato, che avevano mangiato e che avevano buttato. Non crederci a tutte quelle storie. Glielo dicevano sempre, e lei, non rispondeva, si limitava a sorridere. Ehi sorriso. Ehi amico. Un giorno parlò. E non capì, non capì perché parlassero, le persone. Sorridere le bastava, le bastava a capire, e lo capiva. Le parole, la facevano sorridere.

mercoledì, dicembre 4

Ossessione

Quando si parla, quando si scrive, è sempre bene tenere a mente che qualsiasi discorso si faccia riferiti a secondi e a terzi, si sta parlando di sé, solo di sé, esclusivamente di sé. Non si sta aggiungendo nulla a nient'altro. Nemmeno una briciola di significato.

lunedì, maggio 27

Il direttore di banca

Infami gli spruzzi proseguivano nel loro canto, incuranti di tutti quelli che passavano imperterriti ed imperturbabili. Perturbali. Così lo spruzzo diceva. Gli altri spruzzi si impegnavano. Si lanciavano al vento forti, sprezzanti delle altre gocce di umidità, sprezzanti dell’aria che fendevano. Noncuranti dell’attrito. Cercavano di raggiungere le altre gocce, di unirsi, di diventare più forti. Tensioattivatevi. Così diceva lo spruzzo. Il maestro capo dell’effetto bagnante. E però stava fermo. A guardare i suoi compagni, i suoi discepoli, seccarsi l’uno dopo l’altro sull’asfalto caldo, bollente, ma ormai umido. Il vapore si alzava, le anime dei suoi discepoli. Fedeltà e miraggio, questo lui chiedeva da loro. Nulla di più, nulla di meno. E se ne stava lì, a comandare il resto, e avendone piacere. Un piacere perverso, per uno spruzzo. Lo spruzzo spruzza. Si ricordava, quel che gli diceva sempre il saggio delle onde dell’ovest. Lo spruzzo spruzza. Lui non spruzzava, lui faceva spruzzare gli altri spruzzi. In fondo non era così felice, non era così contento. Anzi, si sentiva molto poco spruzzo in realtà. Sognava di essere un direttore di banca. E per quanto si rendesse conto che nessuna banca lo avrebbe mai assunto, perché preferiva rendere schiavo del lavoro per lei un uomo. Che son più irrigidibili dell’acqua e degli spruzzi, e son più facili da comandare. Lui, però, voleva esser rigido. Stava sempre lì, sempre fermo e sempre immobile. Mentre gli altri spruzzavano, lui dirigeva, e sperava di diventare un giorno quello che non sarebbe mai potuto essere. Profondamente infelice, l’unica sua soddisfazione era di avere un potere sugli altri spruzzi pur non sentendosi come loro, sentendosi superiore. Per quanto il vapore dell’anima ignota di quegli spruzzi freddi, sembrava più felice della sua anima vuota di spruzzo immobile. Un giorno, vide mille dei suoi compagni su quella terra bianca, sabbiosa, e spugnosa, che non si bagnava mai. Tutti morti, era rimasto solo. Non aveva più nessuno da dirigere. Non si sentiva più superiore a nessuno. E visse ancora per molto tempo, spostandosi di banca in banca, cercando di trovare un senso alla sua padronanza nel comando, a dargli una scatola da riempire. Ma la scatola non la trovava, andava su ogni pianta di tutte le banche. Cercava di studiare i movimenti di tutti i direttori che poteva vedere. Ma nulla, non riusciva a seguirli, era molto più adattabile, molto più flessibile di loro, per quanto si sforzasse, scivolava sempre dalle foglie, e lentamente si spostava in altre piante di altre banche. Una volta, addirittura riuscì a cadere sulla pianta di un ufficio di un direttore. E lì si sentiva bene, guardava il lavoro, e vedeva che non era poi così difficili, bastava non esser umani, e lui ci riusciva benissimo. Riuscì a scalare i quadri. Saliva la gerarchia delle banche, quella stima di sé raggiunta dalla visione lo aiutò. Erano pochi giorni alla sua promozione. Sarebbe diventato direttore centrale della banca del fondo internazionale dei caduti in miseria, e fu lì che conobbe un generale. Dio quanto era ancora meno umano di lui. Entrò in una profonda crisi, fu un po’ più umano, e il suo rendimento alla banca cedette. Cercò di smettere di pensare al generale. Voleva essere lui, voleva avere il potere di mandare a morte gli altri senza una parola, senza un rimorso. Come faceva a star bene se non poteva nemmeno infelicitare il prossimo. Che poi il prossimo era sempre più felice di lui. Che fosse uomo o fosse spruzzo. A volte pensava che se avesse spruzzato e basta, forse si sarebbe sentito bene. Poi per fortuna si riprendeva, e tornava ad essere infelice come sempre, ma con grandi solide e irraggiungibili ambizioni.

domenica, maggio 26

Oltre il pozzo

Incredibilmente rabbioso non capisce più dov’è il mare e dov’è il cielo. Chi è la madre chi è il padre. Cos’è maschio e cosa è invece femmina. Ma chi sei,   tu chi sei? Tu che mi guardi con occhi allegri e poi tristi, prima sereni e poi disperatamente nostalgici. Chi sei tu? Ammazzami in questo fiume di vetro che mi taglia ogni fiaccola di energia sparita. Ammazzami tu, che ne hai la possibilità. In quale paese vivi? In quale vita nasci? In quale vita esci? E poi soprattutto la morte,  a trovar te, o a trovare noi, che ci alziamo nell’ombra serena di un fanciullo impaurito. Secondo solo al suo battito immenso di un cuore che pompa solo sangue fresco e nuovo,   e note volano in strappi di lasciti vani. E che fai fratello. E cosa sei sorella. E tu amico mio dove pensi di andartene? E tu amica mia mi hai mai amato? E tu compagna mi hai mai voluto bene? Dove sono gli opposti? Dov'è il punto di arrivo? Dov’è il punto dove inizi a capirci qualche cosa. Io non lo trovo, destriero. Io non lo trovo, il mio cavallo, che mi porta dritto e sicuro oltre il pozzo. Il pozzo. E non trovo un cavaliere, ne una dama, ne un cavallo. Nemmeno il re e la regina. E non trovo nulla, e dico basta, quando già non ce n’è più. Che dici basta a fare? E io che ne so, non mi capisco. E se mi capisco, mica c’ho le palle. E se c’ho le palle, mica voglio usarle. Che mi basta una gioventù bruciata e una sigaretta succhiata per riprendere il varco verso l’inferno dell’anima. E l’anima brucia e salta e svampa amore, e tu lo blocchi, perché la gente è cattiva tesoro, la gente è cattiva. 

Polvere

In polvere. Il mio cuore in polvere non riesce più a spremere sangue e mandare passione al resto del corpo. Non arriva più, c’è solo una fredda pompata nervosa del cervello, si fan le cose.